20 gennaio 2004

Un test, dai labirinti di Serendip

Avrei dovuto vedere una porta rossa per dipingerla di nero, ma quella, nera, lo era già di suo. Pesante e chiusa, verniciato anche il pomello, mi sa di centro sociale d'altri tempi, quando ci vestivamo tutti di nero, per intero e senza alzate di capo. Esito ad accingermi ad aprirla, indugio ripensando a un senso d'inadeguatezza assolutamente ingiustificato. Avrei dovuto sapere di essere superiore a quei cliché, di poterli saltare a sette o otto messi in fila, balzandoci sopra con un sorriso, il mio sorriso. Quello che loro invece si facevano mancare così spesso, pur di atteggiarsi. Atteggiarsi a maledetti, a gente che sa già tutto, tutto quello che conta e quello da dimenticare, i comportamenti da praticare e quelli da evitare come la peste, i gusti da clonare. E le serate ad annoiare. Me, perlomeno.

Meglio uscire dal trip e cercare quella che non c'è. Una porta azzurra esiste solo in quei film luminosi con magioni enormi e capienti quanto un albergo. Case sulle quali può anche precipitare un aereo e se ne fanno un baffo. Case come quella scelta da Garp nel film. Quanto mi piacque! Il libro lo lessi anni e anni e anni dopo, in originale, ma perfino all'impossibile confronto il film non ci smenava troppo. Certo, il libro ha la possibilità di andare fino in fondo, fino a mostrarci che siamo tutti "casi terminali". A ricordarci una saggia levità, l'unica che può conciliare capacità di gioire e umana consapevolezza. Quella porta azzurra, io la vedo e basta. Sono altri, i personaggi, che la aprono. Però la luce che ammanta quegli ambienti, quella la vivo anch'io, sul serio e non solo nella finzione scenica.

La porta bianca. Chissà perché oggi le fattezze di queste porte nella mia mente sono simili tra loro. Di ottima fattura, in legno massiccio, con 4 rettangoli a sbalzo ciascuna. Dico: una porta bianca poteva anche essere un banale ingresso ambulatoriale, magari un po' scassatello come a Niguarda dove fanno le vaccinazioni ai piccoli. Invece questa immagine l'ho dovuta evocare io, perché da sola era l'altra a proporsi, quella di una porta ideale, da cartolina irlandese. Dove anche il bianco è un colore a tutti gli effetti e non un semplice sfondo. Mi accontento di rimanere fuori anche da questa porta: meglio guardare l'edificio stando all'aria aperta e magari con una pinta scura in mano piuttosto che rischiare di affrontare una moquette non lavata da troppo tempo, come quella casa a Hastings dove mi toccò soggiornare per un paio di settimane, dopo che mi ero abituato alle comodità dell'impeccabile famiglia Medhurst.

L'ultima porta è quella rosa, ma dove? Serendip, quanti confetti avevi mangiato quel giorno? Una porta rosa? Nella casetta delle bambole forse. Speriamo almeno di riuscire a visualizzare un rosa pastello, che se mi capita il fucsia in questo dopocena vomito. Niente, posso fare finta, ma è sempre una porta estranea. Stasera non valico passaggi, stasera sto qui a scrivere queste quattro righe. Stasera... saranno loro a scrivere me. Non è solo una questione di stanchezza: il fervore la farebbe superare agevolmente; è che a furia di vedere porte che si vogliono diverse e che invece sono la stessa camuffata sento odore di truffa. E allora non varco la soglia. Però sono qui e le mie braccia restano aperte, non ho paura a lasciar pulsare nudo il cuore né a rispondere ai sorrisi. L'amore però si farà in strada, dopo aver bussato a una porta a caso.

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a cura di Giulio Pianese

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