02 settembre 2004

Dolce far niente

Da tutti si può imparare qualcosa. Nel 1979, finita la terza liceo, scelsi di occupare l'estate a fare un po' di soldi per comprarmi lo stereo e trovai lavoro nelle cucine di un ristorante a Cavalese. Insieme a me a lavare i piatti c'era un ragazzo "difficile". Si trattava in realtà di un diciottenne dalle normali potenzialità, che però da trovatello era stato sistemato in un istituto "coi bomboloidi", dove era rimasto per l'intera fanciullezza. Inutile dire che a saperlo prendere era tranquillissimo e perfino incline a sprazzi comunicativi. Fu in uno di quei rari momenti di buonumore confidenziale che mi disse: "Mi son qua a far el lavapiati, ma el mè vero sarìa no far un cazo!"

L'avrei abbracciato, sarà perché io quelli che s'annoiano a non lavorare non li capisco. In effetti, sebbene il mio mestiere continui a piacermi, preferirei non esservi vincolato da ragioni economiche. Sembrano frasi alla Catalano, ma so per certo che esistono persone afflitte da cefalea ogniqualvolta si astengono dalle attività lavorative. Temo dipenda dalla scarsa capacità di rivolgere lo sguardo interiore verso ambiti diversi. Non dover necessariamente lavorare sarebbe un privilegio sfruttabile per coltivare senza remore passioni e interessi personali, per abbandonarsi all'otium, ma anche all'ozio puro e semplice.

I simboli sommi di quest'ultima opzione sono per me essenzialmente due: farsi radere dal barbiere e dondolarsi su un'amaca. In questa estate ricca di vacanze li ho sperimentati entrambi, il primo vicino alla casa in cui sono nato e l'altro, naturalmente, alla casa dell'amaca.
Godendo soavemente mi ci dondolavo prima e dopo ogni escursione su una nuova spiaggia, gli occhi golosi e la pelle salata. Perlomeno quando l'amaca era libera dalle evoluzioni del mammosauro Lorenzo spinto dal mentore ammaestrato alla bisogna, nientepopodimeno che il suo "Gilgameshone", quello che "sa tutte le cose del mondo".
Di sicuro in quei momenti le cose del mondo sapevano identificarsi nel qui e ora. E con Mistral si diceva, appunto: "Quelli che s'annoiano a non lavorare non li capisco."

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a cura di Giulio Pianese

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