30 settembre 2015

Coi calzoni corti

Un tempo, domani sarebbe stato un giorno di nuovi inizi, un autentico capodanno, molto più del 1° settembre. Il primo ottobre cominciava la scuola, quella di grembiule, fiocco, cartella e calzoni corti, con classi maschili e femminili separate. Era quello il momento in cui si avvertiva di trovarsi immersi nella stagione autunnale. Le foglie secche erano già annunciate dai colori di quelle in mutamento, che finivano tra le pagine dei quaderni insieme ai disegni di castagne coi loro ricci.
Oggi, immerso nella scuola mi trovo già da un paio di settimane, ma dall'altra parte della cattedra. Un impegno che va ben oltre le ore effettivamente dedicate a questa porzione delle mie attività lavorative (oltre a traduzione, interpretariato e copywriting), perché l'insegnamento svolto con la dovuta passione assorbe anche interiormente e non solo dal punto di vista professionale. Molte le energie profuse, altalenanti le gratificazioni didattiche, enorme il ritorno umano.
Autunno e nuovi inizi: tra ruggini cromatiche e fisiche, sono molte le energie necessarie a fare buoni propositi, ma si troveranno, affinché sia un buon autunno, buono abbastanza. Oggi però il freddo si sente un po' troppo, mentre allora non si faceva caso nemmeno alle ginocchia nude.

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bonus: Nick Drake, Fly

28 settembre 2015

Dalle stille alle stelle

Aggiornandomi su di sé, un'amica mi scrive: "Pas trop le temps pour les amours pour l'instant, ça viendra." (Ossia, più o meno: Non molto tempo per gli amori al momento, arriveranno.) In generale, mi rendo conto di non essere portato per questa abilità molto femminile, quella dell'attesa, dico. Il mio atteggiamento continua a essere quello di chi si sente davanti a un gelato che si scioglie. E se coi gelati ho imparato a cercare la gelateria d'eccellenza e a rinunciare nel frattempo, con tutto il resto prevale l'impazienza, come quel tizio che nelle ultime ore della notte si alzava e procedeva speditamente verso est per vedere l'alba in anteprima.

Cito nuovamente Tino (Tindaro Granata) e il suo Antropolaroid ricordando la benedizione della stidda, la stella cui l'aveva raccomandato la bisnonna, augurandogli "fortuna, bellezza, sofferenza. Perché non c'è fortuna, non c'è bellezza se non si passa dalla sofferenza". Bello, quasi sempre vero, però, ecco, di passare (o ripassare) dalla sofferenza probabilmente non ho voglia, o forse non sono capace di farlo volontariamente. Ogniqualvolta posso scegliere, tendo a optare per la soluzione più facile e a preferire la felicità più a portata di mano. Chissà se è pigrizia o una forma di paura, paura che l'attimo fuggente faccia il suo mestiere e scappi.

L'attimo fuggente in realtà lo si incontra camminando laddove il sentiero non sia tracciato in anticipo. Là dove si porta un passo davanti all'altro e passo passo si procede. Lo sguardo spazia senza volontà di possesso e là dove muscoli e sudore si lasciano dimenticare, passo passo si può camminare a lungo anche in salita. Sicuramente il cammino risulterà più agevole dopo che mi sarò fatto sistemare il piede dolorante. Il cammino, e la corsa, e il ballo. Beh, in fondo da un qualche tipo di sofferenza si passa comunque. Poi sarà fortuna, sarà bellezza.

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bonus: Crosby, Stills, Nash & Young - Love The One You're With

20 settembre 2015

Persone per sé e per gli altri

Alla fine del suo spettacolo, Tino ha fatto un discorsetto. Tino è Tindaro Granata, attore e autore teatrale molto bravo, intenso ed efficace. In Antropolaroid riesce a essere toccante e divertente al tempo stesso. Sono stato arcicontento di riassistervi e in più c'è stato il bonus del discorsetto, in cui ci ha raccontato in modo semplice e diretto i suoi esordi e le difficoltà che lo aiutarono a crescere e soprattutto a rendersi conto dell'imprescindibilità di lavorare per "diventare persone migliori".

L'evoluzione personale non sempre ci accompagna, è umano e normale che si attraversino periodi anche lunghi di stagnazione, dovuti essenzialmente a stanchezza e pigrizia. Tuttavia, restare umani è una necessità irrinunciabile per non sciupare la bellezza del vivere (tenendo presente che è già un lusso potersi accorgere di tale bellezza) e "restiamo umani" è il motto che specialmente di questi tempi ci si ripete e si propugna come invito alle autorità nei confronti dei profughi e dei migranti.

Proprio su questo concetto giocava il titolo del manifesto dell'altro giorno ("Arrestiamo umani"), a proposito delle reazioni ai drammi che stanno bussando fisicamente alle porte dell'Europa. Drammi, problemi, situazioni... tutti modi un po' asettici di riferirsi a emergenze che in realtà vengono vissute da persone, persone come noi ma probabilmente meno fortunate alla lotteria di Babilonia.

In rete è stata diffusa la bella immagine di un poliziotto danese che gioca con una bimba profuga. Dà una certa carica di speranza, restaurando un po' di fiducia nelle immense potenzialità del "bene" anche laddove pare che la realtà fattuale non lasci spiragli all'ottimismo.

Chiave di lettura straordinaria per questa foto è la frase stramba che ha utilizzato per commentarla Federica Bellagamba:
"Quando le persone si personano poi non si torna indietro".


A corredo delle riflessioni che tale considerazione può innescare, segnalo due interventi da parte di altrettanti blogger della vecchia guardia (ossia attivi su blog fin da inizio millennio).
Uno è un resoconto estemporaneo di Rillo, che inizia così:
Esterno notte, area residenziale a sud di Milano, piovechediolamanda.
Rientrando a casa scorgo la figura di un uomo vestito molto dignitosamente.
Sta fermo. In piedi, sul marciapiede sotto la pioggia torrenziale, la testa china, sembra che aspetti qualcosa.
[continua a leggere]
L'altro è un post di Gaspar Torriero, Rifugiati, che in modo diretto e sintetico e a partire dalla propria storia familiare, illumina sull'universalità dell'esperienza umana.

In entrambi i casi, la parola chiave, esplicita o implicita, è: "persone".
Ricordiamoci che anche loro, i reietti, lo sono; ricordiamoci che noi lo siamo, si spera.

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bonus: Manu Chao, Clandestino

05 settembre 2015

A occhi aperti

Il piacere captato dalla realtà circostante o dal sottomondo intrecciato negli anfratti dell'indicibile si amplifica se riesci a raccontarlo, e condividerlo vuol dire questo, in special modo se le distanze impediscono di puntare occhi e spirito verso un medesimo panorama di multisensazioni.

Per questo, anche per questo, cerchi di raccontare i sogni, ma non tutti i sogni sono fatti per essere raccontati. Non certo per pudore, piuttosto per la mancanza di fili logici che riescano a tenere insieme il tutto. Quel tutto che un racconto, per l'appunto, saprebbe tenere insieme, restituendo o donando un senso a tante indifferenti singole casualità (dal caso alla causalità, ecco un percorso che si nutre di verbalizzazioni).

Sogni, sogni ne fai, ma non sai se ne hai. Quando ti chiedono qual sia il tuo sogno, un sogno qualsiasi, non ti affiorano risposte. Ti pare vada bene così, magari aggiustando un po' le cose, migliorandole e migliorandoti, ma non sapresti, non sai andare oltre un trittico di desideri a ogni plenilunio, con uno sguardo che rimane corto, nel bene e nel male.
Sogni a occhi aperti, però, sì, quelli li hai sempre fatti e, sebbene confinati a parziali e intense felicità, seguitano a risbocciare vivissimi, identici e diversissimi, schiudendosi al sorriso armonioso di un benessere condiviso.

Il piacere captato nei sogni a occhi aperti si mescola con quello captato dagli occhi in panorami da sogno. Anche in varianti inattese, come quella volta di un tardo pomeriggio sul confine tra Trentino e Alto Adige.

Ero partito con l'animo contrariato, perché l'iniziale richiesta di mia figlia per un passaggio preserale fino a Varena (3 paesi più in su di Castello di Fiemme) si era trasformata all'ultimo minuto in Malga Varena, che si trova oltre il passo Lavazè. Luogo stupendo e tra i miei preferiti, ma proprio quel giorno avevo declinato un invito ad andarci di pomeriggio, troppo lo sbattimento per così poco tempo, e così avevo lasciato che fossero mia sorella e un paio di amici a beccarsi l'acquazzone, mentre passavo qualche ora al computer a sistemare i testi per il sito web di un albergo (che prossimamente sarà on-line...).

Poi, raggiunta la destinazione poco prima del tramonto e lasciata giù la Caju, anziché ritornare subito proseguii fino agli Oclini e mi fermai a far spaziare lo sguardo. Il cielo era cupo, ma luce forte filtrava qua e là, agli orli delle numerose nuvole. In piedi tra Corno Nero e Corno Bianco, osservavo il Latemar in una colorazione inedita, scurissima e quasi violacea. Anche tutto il resto, a 360 gradi, restituiva immagini per me inconsuete, aduso come sono a godermi di lassù gli splendori di giornate climaticamente favorevolissime.

Avrei voluto fotografarlo, quel paesaggio, ma non ne avevo i mezzi né, in ogni caso, le capacità per renderlo in maniera soddisfacente. Il bisogno di ritrarlo fu soddisfatto grazie a una telefonata, giunta alle orecchie di uno sguardo capace di cogliere immagini dalle parole, e gustandole di sorridermi un sorriso celeste punteggiato di lentiggini tra boccoli di grano. E ancora una volta, la condivisione raddoppiò il piacere.

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bonus: Sam Cooke, I'll Come Running Back To You


a cura di Giulio Pianese

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